Manifesto di RedShift

Manifesto politico

Siamo un collettivo dell’area scientifica che vede la rappresentanza come un mezzo per poter cambiare la struttura dell’Università e non un fine. Per questa ragione non ci rifacciamo ad alcun partito o sindacato, né ne accettiamo i finanziamenti: non siamo la giovanile di nessuno ma studentɜ indipendentɜ, con una sincera volontà di migliorare le condizioni della comunità tutta.

Oltre allo strumento della rappresentanza, vediamo nell’immersione all’interno dei movimenti, studenteschi e non, che sono a noi affini un grande strumento per cambiare la realtà nella quale viviamo: siamo convintɜ che l’unico approccio legittimo verso il cambiamento sociale sia quello che parta dal basso e vada verso l’alto. Il contrario è barbarie. 

Per questo motivo, la nostra organizzazione è completamente orizzontale: non abbiamo gerarchie, capɜ o comandanti. Ogni persona è libera di partecipare, ponendo quesiti o esprimendo la sua opinione, durante i momenti nei quali ci incontriamo e discutiamo dei temi che collettivamente riteniamo importanti.

Crediamo che tramite una struttura di rappresentanza orizzontale si possa propagare la voce della componente studentesca a strutture accademiche spesso strettamente verticali e gerarchiche.

La centralizzazione del potere e delle conoscenze è una pratica completamente antitetica a ciò che noi vogliamo costruire e per questo motivo la rifuggiamo.


Università, scienza e politica

In un tempo storico in cui la ricerca scientifica è strutturalmente definanziata, la rincorsa a finanziamenti terzi da parte del sistema universitario ha preso il sopravvento, mettendo in pericolo la libertà di ricerca e l’esistenza stessa dell’Università come luogo realmente libero e disinteressato di conoscenza.

Oggi infatti grandi e piccole aziende determinano sensibilmente l’indirizzo della ricerca e delle università tramite il loro potere economico.
La scienza è un’attività sociale, portata avanti da persone con un posizionamento etico-politico, guidata da enti che possono trarne vantaggio economico ed estrarne valore: come ogni attività umana è per sua natura intrinsecamente politica. Non può esistere ricerca disinteressata e libera se le più incentivate sono quelle che portano un maggiore beneficio economico, finanziate dal portatore di interesse con più potere, sia questo economico o soft-power.
L’università deve essere slegata dagli interessi economici di imprese: non deve essere complice del collasso socio-climatico o essere strumento di reclutamento industriale, come ad esempio da parte delle industrie belliche e del fossile.
Come collettivo, ma soprattutto come comunità scientifica allargata (studentɜ, ricercatorɜ, professorɜ, comunicatorɜ della scienza), lottiamo assieme a tutti i movimenti presenti nella nostra università – e nel resto del mondo – per rendere la tecnica e il sapere sviluppati all’interno dell’accademia un servizio per il bene comune e portare benessere a tuttɜ e non a pochɜ. 

Lottiamo affinché l’università possa essere accessibile a tutte le classi socio-economiche, eliminando ostacoli e disparità all’ingresso e nel percorso, siano queste di natura patriarcale, abilista, razzista o generate semplicemente dalla struttura odierna del sistema universitario.


Spazio d’incontro tra saperi scientifici

A corollario di questo processo vi è la sempre maggiore settorializzazione della conoscenza con la conseguente impossibilità di sviluppare un pensiero 

interdisciplinare in grado di farsi forte del rigore delle scienze esatte, ma anche del portato, altrettanto fondante, fornito da discipline diverse, scientifiche e non.

La ricerca odierna così settorializzata presenta importanti limiti: da raccolte dati non inclusive verso soggettività marginalizzate, a studi sull’efficientamento della ricerca ed estrazione di combustibili fossili noncuranti dell’attuale stato più che critico del nostro clima, ad ancora sistemi di intelligenza artificiale capaci di automatizzare grandi moli di lavoro, ma prive di discussioni relative alle classi sociali il cui sostentamento dipendeva proprio da questo lavoro.

È necessario introdurre questi aspetti nell’ambito universitario, nei nostri esami, seminari, tesi e ricerche. È necessario vi sia una rinnovata coscienza e consapevolezza nelle ricerche, negli effetti che queste producono e sul contesto in cui si immergono. E ciò non può essere ridotto alle sole aule e alle sole lezioni: ci impegniamo perciò a costruire spazi per confrontarci autonomamente, tra aree scientifiche diverse, per poter contaminare e intersecare le nostre conoscenze.

La complessità del reale non è catturabile da alcun modello, e tantomeno può essere descritta da strumenti che arbitrariamente vengono definiti oggettivi. Qualsiasi cosa generata dall’umanità presenta un impatto sostanziale e determinante nella quotidianità e nella determinazione di ogni evento, sia questo dal valore storico o quotidiano, sia questo riguardante il singolo o la comunità globale. 


Non esiste capitalismo verde

Crediamo in una ricerca che sia sostenibile dal punto di vista umano, che non vada a buttare dottorɜ e ricercatorɜ nel gigantesco tritacarne che è il sistema del “Publish or Perish”, ma che valorizzi la ricerca che queste soggettività compiono e tenga conto del loro benessere psicofisico.

Crediamo anche in una ricerca sostenibile dal punto di vista ambientale per impatto e finalità: vogliamo che il nostro lavoro risponda alle domande del presente e della società tutta, non a quelle di un agglomerato di corporazioni che intende utilizzarci come un reparto ricerca e sviluppo esternalizzato. Pensiamo che la ricerca non debba essere finalizzata all’efficientamento e replicazione di tecniche ecocide. 

Stanno sbocciando i fiori in Antartide: non saremo complici di questo status quo.

Lo status quo è quello dell’attuale modello economico vigente: il capitalismo. Quest’ultimo, nonostante l’immensa quantità di ricchezza che produce ed indipendentemente dalla distribuzione iniqua che ne fa, prevede uno sfruttamento delle risorse umane ed ambientali in nome del profitto che non è compatibile con il sistema finito e complesso nel quale viviamo.

Il profitto, che è il motore del capitalismo, è per forza di cose inconciliabile con qualsiasi tipo di ricerca sostenibile, aldilà delle già sbugiardate previsioni sul decoupling: un grandissimo numero di lobby industriali finanziano ricerche che giustifichino la loro presenza nel mondo, andando a strangolare dati oggettivi per legittimarsi e mantenere la loro egemonia sulle risorse naturali. Come possiamo pensare ad una ricerca libera quando la situazione che ci si presenta davanti è questa?


Quale meritocrazia?

Dietro l’accezione positiva della parola merito si nascondono significati profondamente ideologici che vanno ad attaccare i valori di uguaglianza. Il riconoscimento del merito avviene attraverso organi specializzati, come l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR), che definiscono arbitrariamente cosa è meritevole e cosa non lo è. 

Non esiste valutazione oggettiva. 

La competenza e il merito sono concetti fumosi, estremamente soggettivi e per questo strumentalizzabili: oggi, chi stabilisce come misurare e come valutare vuole un’università-fabbrica che produca lavoratorɜ nel minor tempo possibile.

Questa trasformazione ha comportato l’allineamento dell’idea di meritevolezza con quelle di competitività e profittabilità, concetti che pervadono il nostro modo di apprendere, alienandoci dalla nostra comunità e incentivando un rapporto malsano con l’apprendimento.

Competenza ed educazione sono stati definiti, dall’European Round Table of Industrialists, “beni individuali”: così facendo, chiunque non vedesse riconosciuti i propri meriti ha dovuto attribuire la “colpa” solo a se stessə, alla propria incapacità di “stare sul mercato”. I problemi sociali sono così stati individualizzati, spogliati della loro dimensione collettiva e politica.

Gli organi che seguendo questa ideologia ci valutano e ci portano a competere tra noi e con le materie che impariamo, non contemplano alcun cambio del paradigma della didattica o potenziamento del Diritto allo Studio, manovra di carattere pubblico che porterebbe alla parziale rimozione delle condizioni di disuguaglianza sociale che ostacolano il raggiungimento di meriti da parte di larghe fasce della popolazione, che continuano ad essere emarginate in base alla loro provenienza e condizione economica. Non c’è alcun merito nel nascere in una determinata famiglia o in un determinato quartiere, così come non c’è alcun demerito nel non possedere adeguati mezzi economici e culturali.


Riprenderci i nostri spazi

I due anni di pandemia ci hanno disabituatɜ a un concetto fondamentale che permea il mondo dello studio, della didattica e della ricerca: l’apprendimento ha bisogno di spazi fisici per essere messo in atto in modo sano. Abbiamo bisogno di spazi di convivialità che ci permettano di compiere questo processo provando piacere nel farlo e non l’ansia performativa che ci ha piagato per anni e continua a farlo tuttora.

Ad oggi questi spazi fisici stanno subendo una graduale riduzione per essere dedicati alle attività di lezione frontale e svolgimento esami, o restando inutilizzati piuttosto che essere dedicati a momenti di studio condivisi, scambio culturale o semplicemente convivialità.

A fronte di questo problema diversi collettivi studenteschi si sono attivati per poter autogestire degli spazi fisici, creando esperienze di svago, aule studio e mobilitazione. Troviamo in questi spazi autogestiti esempi virtuosi e miriamo a difenderli, valorizzarli e replicarli.

Per quanto si può fare muovendosi attraverso il complesso sistema burocratico dell’Università, puntiamo a rendere la gestione dei diversi dipartimenti che attraversiamo più simile a quella del Dipartimento di Matematica: aperto ventiquattro ore al giorno, nel quale la componente studentesca non si limita a studiare e passare degli esami ma diventa parte integrante della vita della struttura, con spazi di convivialità autogestiti interni al dipartimento stesso.